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MILLION DOLLAR BABY
(MILLION DOLLAR BABY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 1 marzo 2005
 
di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Morgan Freeman, Hilary Swank (Stati Uniti, 2004)
 
Da poche ore è plurioscarizzato; di quelli che contano, miglior film, regia, attrice protagonista, attore non protagonista. Al limite si potrebbe sospettare di questa clamorosa legittimazione da parte di una istituzione alla quale abbiamo guardato spesso turandoci il naso. Ma una volta tanto essa ci appare esemplare: proprio perché non va a sottolineare “soltanto” quelle qualità artistiche che spesso l'accademia californiana ha pacchianamente ignorato, ma una caratteristica essenziale, e sempre più in via di scomparsa del cinema di Eastwood, la sua universalità.

Girato da un mestierante, il melodramma della cameriera ultratrentenne del fastfood che a furia di crederci convince il vecchio pugile a farle da manager per condurla nei pressi del titolo mondiale (prima di un finale che osa toccare le vertigini del tema dell'eutanasia; ma che è forse la sola forzatura di un capolavoro), la delicatezza ai confini delle emozioni agrodolci di quei rapporti desueti, rischierebbero addirittura lo scherno nel panorama fra i cazzotti ad effetto speciale contemporanei. Ma il cinema di Eastwood è ormai unico al mondo; e MILLION DOLLAR BABY non è (soltanto) un film sulla boxe. E non solo perché il fascino sexy dell'ispettore Dirty Harry ha saputo sconfinare in un altro genere di seduzione: quella malinconica, crepuscolare ma pure consolatoria dei suoi eroi a partire da GLI SPIETATI.

Da MYSTIC RIVER a MILLION DOLLAR BABY il passaggio da una riflessione corale alla riflessione dell'intimo avviene con una facilità ed una verità che da sola farebbe gridare al miracolo. Gli ingredienti del linguaggio sono gli stessi: i chiaroscuri dai quali emergono a malapena, ma con infinita energia emotiva il pudore, la sensibilità come l'ambiguità dei personaggi. I movimenti di macchina e le inquadrature, memori di un classicismo assoluto che iscrivono l'ambiente in quei tagli di luce impietosi, privi di dubbi e di mezze tinte, che nulla lasciano al caso delle psicologie o agli imponderabili dell'aneddoto. Gli attori avvicinati con istintiva, commossa introspezione (conoscevamo la forza della presenza di Morgan Freeman, ma la Hilary Swank di BOYS DON'T CRY incanta oltre ogni aspettativa). Là era una riflessione sulle origini del male; sugli equivoci, il sospetto, la mistificazione. Qui sulla complessità dell'essere: sul dovere di imparare a proteggersi. Prma di ogni altra cosa, come si ostina a ripetere il vecchio allenatore alla ragazza sul ring. Dall'avversario, certo; ma pure da chi ci vive accanto, dalla famiglia,dai meccanismi della società come quelli ancora più insondabili del destino. Dal rimorso per le proprie colpe come dal rimpianto per le occasioni che non sono state colte a tempo.

Scarno, essenziale, eterno: osservando come la cinepresa coglie il gioco di sguardi fra Clint ed il suo portavoce Morgan Freeman, (che riappare dai tempi di UNFORGIVEN nell'infinitamente poetica collaborazione fra due solitudini), come basti la puntuale eloquenza di un fotogramma sulla piega di un'espressione muta, ci rendiamo conto della forza di uno sguardo che se ricorda quello di Ford o di Hawks non è certo per il piacere postmoderno della citazione. Ma perché, come quelli, sa impossessarsi dell'equilibrio della lezione classica per trasformare ogni istante della commedia del piccolo nell'emozione di una tragedia antica. Di una lezione morale che aspira di diritto all'infinitamente grande.


   Il film in Internet (Google)

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